Questo documentario nasce in risposta al primo, R/esistenze, sulle donne partigiane in Italia, una specie di passaggio della staffetta. Il primo l’ho perso e per poco non ho perso anche questo, rimasto in esposizione solo un paio di settimane, in una stanza del Museo della Resistenza dove il personale quando vedeva un visitatore veniva ad accendere il video – dalla pessima risoluzione audio.
Primi istanti di spaesamento. Ma se si riesce a mettere da parte l’insofferenza per gli obsoleti giochi di parole da femminista inacidita (uno per tutti, il titolo) e l’allestimento fai-da-te, la mostra ha davvero molto da dire. O da suggerire.
Alle pareti sono appesi ritratti fotografici di donne che hanno lottato, stanno lottando, non per ideali astratti ma per problemi concreti con cui si scontrano ogni giorno. Guerra, disagi sociali, ecologici, religiosi, silenzi politici, discriminazione sessuale. Conoscevo alcune di loro, spesso solo i loro nomi, come la fisica Vandana Shiva, sostenitrice dell’ecofemminismo, che sapevo autrice di Monocolture della mente ma di cui ignoravo le lotte per la salvaguardia ambientale e dei saperi tradizionali indiani e la battaglia ancora aperta contro l’introduzione degli OGM in India.
Sapevo che le madri dei desaparecidos argentini si erano costituite in associazione, Madres de Plaza de Mayo, ma non sapevo davvero quale fosse il loro ordine del giorno. E sono rimasta colpita. Dai volti segnati di queste donne semplici, madri qualunque, che di fronte al dolore lacerante del rapimento, tortura e cancellazione dell’esistenza dei loro figli, hanno trovato la forza per combattere il silenzio e sfilare ogni settimana, dal 30 aprile 1977, di fronte alla Casa Rosada nonostante l'omertà di chi sapeva, le intimidazioni ricevute e il rapimento e poi l’omicidio di tre fondatrici. In questi trent’anni le madres non si sono mai fermate e hanno aperto un caffé letterario, una biblioteca, una università cooperativa, una videoteca, una casa editrice, e ora anche una stazione radio. Hanno visto riconosciuta la loro tragedia con ammissioni politiche e da mobilitazioni internazionali. Dicono che sono stati i loro figli, che non avevano paura di far sentire le loro voci, a farle rinascere.
Aminattou Haidar viene da un’altra parte del mondo, è sposata e ha due figli. Aminattou Haidar è il simbolo della lotta per la difesa dei diritti umani nei territori occupati del Sahara occidentale, violate dalle forze marocchine. Aminattou Haidar per la sua protesta pacifica ha subito incarcerazioni e torture. L’ultima volta, il 17 giugno 2005, è stata prelevata dall’ospedale dove le stavano medicando le ferite inferte dalla polizia marocchina durante una manifestazione pacifica a El Ayoun. In commissariato è stata sottoposta a tre giorni di interrogatori, in isolamento, senza cibo né medicinali, poi è stata trasferita nel Carcel Negro di El Ayoun da dove è uscita sette mesi dopo per riprendere il suo attivismo a favore dei diritti umani e del Sahrawi.
Questa galleria di ritratti, ognuno con una storia drammatica alle spalle e ognuno sorretto da determinazione e coraggio è e deve rimanere il volto non di eroi o eroine, ma di persone comuni, per cui farsi delle domande e trovare delle risposte è un processo normale, quotidiano. Se penso all’Italia in cui viviamo non posso non avvertire ancora più forte quella fitta amara, di dolore e disgusto per una classe politica che fa il buono e il cattivo tempo e le cui magagne vengono programmaticamente coperte da scuse così incredibili da risultare offensive per l’intelligenza dell’ultimo dei cittadini. E nessuno si indigna. Molte di queste donne vengono da paesi in via di sviluppo, spesso non hanno potuto accedere ad un’istruzione avanzata. Noi abbiamo lauree e master alle spalle che ci dovrebbero aver dato gli strumenti culturali per comprendere il nostro tempo e acquisire quella perla rara che è il senso critico. E per cosa?
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